La prima settimana di novembre ha rappresentato uno spartiacque nei mercati finanziari globali. Dopo settimane in cui il racconto dominante era quello della forza americana — un’economia resiliente, un mercato del lavoro solido e un dollaro inarrestabile — lo scenario si è improvvisamente capovolto. Il “narrative trade” che aveva spinto investitori e algoritmi a premiare l’eccezionalismo statunitense è collassato nel giro di quarantotto ore, trascinando con sé valute, azioni e rendimenti.
L’epicentro del terremoto è stato, ancora una volta, Washington: un governo paralizzato dallo shutdown, dati ufficiali sospesi, fiducia dei consumatori in caduta libera e una politica monetaria costretta a navigare “a vista”. La settimana è cominciata con numeri apparentemente rassicuranti — un ADP forte e un ISM Services PMI in risalita, accompagnati da rendimenti obbligazionari in crescita e un DXY oltre la soglia psicologica dei 100 punti — ma si è chiusa in un clima diametralmente opposto: paura di rallentamento, dollaro in caduta, e un ritorno al classico rifugio nei Treasury e nello yen.
A rendere il tutto più esplosivo, la miscela politica e geopolitica. Da un lato, la prosecuzione dello shutdown più lungo della storia recente americana, con l’ennesimo fallimento dei negoziati tra democratici e repubblicani. Dall’altro, una nuova escalation nella guerra dei semiconduttori tra Stati Uniti e Cina, con restrizioni sempre più mirate al cuore dell’intelligenza artificiale. Intorno, i mercati globali hanno reagito a catena: l’Europa ha seguito il ribaltamento di Wall Street, la sterlina ha sofferto il colpo dovish della Bank of England prima di risalire insieme al dollaro in discesa, mentre l’Asia-Pacifico ha vissuto giornate di volatilità amplificata dal deteriorarsi del sentiment globale.
